Credo che siano passati ormai quasi quindici anni. Aiutai un gruppo di donne a organizzare un convegno e loro per ricompensarmi mi fecero andare tre giorni a Prato a partecipare a un laboratorio interculturale. E’ stata una delle forme di pagamento migliori che io abbia mai ricevuto, non solo perché ricordo molto bene alcune delle cose che lì ho vissuto, e il loro significato preciso e profondo, ma anche perché fu una esperienza di vera condivisione fra estranee, che poi estranee non furono più.
C’erano studiose, professoresse universitarie, letterate, storiche. Gente che sapeva dire bene le cose che pensava (il segreto è tutto qui: usare le parole giuste nelle giuste frasi e nelle giusta sequenza nell’esprimere ciò che si pensa). Una di loro in un suo intevento ci invitò, noi che eravano così giovani, a riflettere sull’identità, ovvero ci disse che poteva essere smontata, decostruita, abbandonata. Ci pensai su per tutto il giorno, come un pensiero non del tutto cosciente e a ridotto tasso di concentrazione; un pensiero che sai che c’è e che si sta facendo i suoi giri dentro e fuori le tue esperienze passate, dentro e fuori le tue convinzioni, dentro e fuori la tua emotività. Come quando lanci un anti virus e lo lasci lavorare. Perché sapevo che aveva ragione, con l’intelletto ci arrivavo, ma qualcosa mi impediva di aderirci anche col resto.
La sera a tavola, il pensiero macinato durante il giorno giunse a maturazione e dissi alle mie commensali che per loro, le docenti, era facile predicare la decostruzione dell’identità. Loro ci riuscivano, se ci riuscivano, dopo averne avuta una bella solida. Nel clima culturale degli anni ’70 con un certo femminismo che aveva il vento in vela, scegliere da che parte stare, con tutta probabilità determinava anche chi eri, o almeno alcuni tratti di una identità te li offriva. E se ci aderivi ti ci costruivi intorno.
L’identità è un appiglio forte nella costruzione di chi vogliamo essere e, soprattutto quando non hai accumulato sulle spalle l’esperienza che da quell’identità deriva, non ci rinunci tanto facilmente. Semplicemente puoi non essere pronto a vedere cosa c’è oltre una struttura che hai lungamente creduto inviolabile. Per me ora, ad esempio, non ha più tutta questa importanza definirmi in base all’orientamento sentimentale e sessuale, ma per molti anni l’ho fatto, eccome! Mi individuavo e collocavo all’interno di una precisa sub-cultura (sub perché eccentica rispetto a quella dominante) lesbica. Ma adesso non è più così. Perché definirmi in base a un solo parametro mi sembra limitante. Ma quando ero giovane mi sembrava una cosa enorme, qualcosa che diceva tutto quello che c’era da dire.
Tutto questo che vi sto raccontando ha origine dalle polemiche interne sul pride e sul come dovrebbe essere. Ad alcuni pare che il pride non abbia più molto senso perché la maggior parte delle rivendicazioni del movimento sono state, se pur tardivamente, accolte con la legge Cirinnà. Ma è solo un momento di quiete dopo la tempesta, io credo. Nei paesi in cui le leggi ci sono da molto tempo, i pride continuano a esserci e in alcuni casi sono oceanici.
Altr* si appellano alla sobrietà. Vecchissima critica mossa da ogni dove, ogni anno. Alcuni comuni concedono il patrocinio a patto che la sfilata sia sobria, ad esempio, ed è una richiesta alla quale, secondo me, non dovremmo sottostare. Perché accettarla vuol dire in sostanza avvallare il pensiero di chi crede che il pride sia un porcaio animalesco. Ma così non è: c’è chi confonde la nudità di qualcuno con la pornografia di tutt*. In secondo luogo: pride rappresenta anche altro rispetto alle richieste formali di una equiparazione di legge fra i/le cittadin* a prescindere dal loro orientamento. E’ il momento di visibilità della rottura del convenzionale. E’ il momento pubblico, non ignorabile, di punti di vista alternativi a una concezione mainstream del vivere. Ma si dice: mica vai in giro con le tette al vento normalmente. Oppure: mica vai in giro in tanga normalmente. Certo che no, ma è il contesto a dare significato al gesto. Può darsi che chi lo fa abbia ancora bisogno di esprimere in maniera forte, per alcuni esagerata, quell’appartenenza a una identità altra che fanno fatica a esprimere negli altri 364 giorni, e che sia per loro un gesto di autentica liberazione. Opinabile, ma non censurabile. Un po’ come me durante quel famoso laboratorio di Prato di cui parlavo all’inizio: lì a rinunciare alla mia identità c’ho provato e mi ci sono pure divertita, ma tornata a casa me la sono ripresa con tutte le scarpe. E chissà forse a vent’anni, se non avessi avuto un venetissimo senso del decoro e del pudore quasi beghino, qualche in-sobrietà l’avrei fatta pure io. Di sicuro c’ho pensato e fantasticato. Di sicuro so di aver sentito una certa smania addosso, ad esempio, a Roma nel 2000, quando di anni ne avevo 22 e mai mi era capitato di stare dentro una fiumana di un milione di persone, arrivate nella capitale per il Word Pride. La smania che viene a stare dentro a una corrente di energia fortissima, che ti caveresti anche la pelle per sentirla meglio.
A me poi pare anche sospetto che si dica adesso con maggiore convinzione che in passato che occorre sobrietà. Come se l’aver ottenuto il riconoscimento dei diritti civili ci avesse reso un po’ più “normali” e quindi si senta il bisogno di “normalizzare” anche il pride.
Come scriveva Sandro Penna: Felice chi è diverso essendo egli diverso, ma guai a chi è diverso essendo egli comune”
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